Nella sua descrizione del territorio vicentino il Maccà narra che poco dopo il 1188 alcuni fuoriusciti vicentini, criminali e fuorilegge, avevano compiuto numerose rapine nelle zone sotto la sovranità di Padova, ma adiacenti Montegalda, presidio tenuto da Vicenza, ove avevano trovato rifugio, con grande tolleranza delle loro azioni nefande. Gli euganei mandarono diverse lettere al governo della città berica per manifestare la loro rimostranza, ma non ricevettero giustificazioni soddisfacenti.

Furono così costretti a un successivo invio di "ambasciatori" ovvero intermediari a nome dei cittadini vessati, che elencarono le loro lagnanze e le molte recriminazioni, per cercare di ottenere un indennizzo e di sanare l’incresciosa situazione diplomatica. Tuttavia gli stessi rappresentanti, una volta usciti e avviati sulla via del ritorno, entrarono a Montegalda con le armi, si impossessarono del borgo e presero prigionieri quei mascalzoni.
La notizia del colpo di mano arrivò rapidamente e sconvolse i vicentini che nominarono subito due dignitari plenipotenziari con il preciso impegno di formare un grosso esercito guidato da due podestà uno di nomina comitale, lo stesso conte Uguccione dei Maltraversi, e uno di nomina vescovile nella persona di Guido da Vivaro. Una volta radunata la massa adeguatamente equipaggiata, con gran tripudio della popolazione si diressero verso la zona della biforcazione del Bacchiglione - Retrone, l'attuale Longare, ma in quel periodo nel territorio berico di pertinenza di Custodia, per chiudere il ramo del fiume orientato verso le terre patavine e aumentarne il flusso verso la "riviera" in direzione di Este. Con grande animosità e baldanza uscirono dal capoluogo preceduti dal carroccio trainato dai buoi, a dimostrare tutta la loro determinazione.
Una spedizione organizzata in questo modo, con la presenza del simbolo più prestigioso dell'identità della città, non aveva certo l'intenzione di procedere alla chiusura materiale del fiume, a cui potevano essere dedicati zappatori o coloni certamente abili ed efficaci in questo ruolo, ma aveva lo scopo principale di fare guerra, di impegnarsi in battaglia fino all'ultimo sangue e combattere contro l'avversario in modo da causargli il maggior danno possibile anche a scapito della vita.
Il carochium, chiamato così nelle cronache del periodo dei Comuni, usato come punto di riferimento e di raccolta per i belligeranti durante il combattimento, era un carro a quattro ruote, di dimensioni generose, ricoperto da un tessuto che riprendeva i colori della città e trainato da una o più coppie di buoi dotati di gualdrappa con i simboli del Comune. Al centro si ergeva un'antenna con le insegne cittadine e si innalzava anche una campana, la Martinella, con cui si dava il segnale della battaglia e si richiamavano i combattenti più lontani e dispersi, e, in caso di bisogno, serviva per orientare la raccolta e l'accoglienza dei feriti. Dotato di un altare, poteva servire per funzioni religiose propiziatorie per infondere coraggio e spirito combattivo. Vi prendevano posto trombettieri per scandire gli ordini di marcia e uomini d'arme scelti per la loro abilità e potenza, che, per il loro numero, lo attorniavano a difesa. La perdita del carroccio in combattimento era la più grave calamità, in quanto simboleggiava il campanile, l'unità dei cittadini sotto un’unica volontà.
Nei periodi di pace veniva custodito nella cattedrale cittadina o in un altro sacro tempio per essere esposto in corteo solo in qualche rara e solenne occasione.
Si diffuse in quasi tutte le città italiane del Nord e in Toscana, ma ebbe analoghe riproduzioni anche all'estero. Nel periodo medievale fu poi trasformato da mezzo bellico in strumento politico, con l'aggiunta di ornamenti sempre più rappresentativi ed emblematici del potere cittadino. La presenza della croce e di un altare e la sua conservazione in chiese ribadiscono il suo aspetto votivo e spirituale, come un oggetto religioso di culto, cui la venerazione popolare chiese l'accensione perenne di un lume a olio. L'uso in battaglia venne stimolato dall'autorità religiosa ben presto affiancata dall'autorità politica comitale o comunale.

Con molta probabilità venne utilizzato per la prima volta dalle truppe longobarde scelte, gli arimanni, con la funzione militare specifica di carro da guerra. La diffusione forse si deve alla persistenza di discendenze arimanniche, che avevano mantenuto le loro prerogative e autonomie nell'Italia settentrionale del periodo, e non dobbiamo stupirci che l'influenza longobarda possa essere giunta anche nei nostri distretti, vista la persistenza delle toponomastiche della zona di Secula, ove vi sono la via scodegarda, a ricordo di un recinto regio per i cavalli, e le tracce di un bosco "arimanno".
Nel carroccio vicentino, usato come simbolo solo dopo la battaglia di Legnano del 1176, l'influenza dei due podestà, uno di nomina vescovile e l'altro di nomina comitale, poteva convergere su un'unica rappresentazione tale da infondere coraggio e sprone ai combattenti, bardata con gli stemmi dei personaggi più in vista del capoluogo, sostenitori della spedizione, con i blasoni dei paesi adiacenti fornitori di armati, che dimostravano il loro schieramento e la loro sudditanza al capoluogo, anche per quelli, come Bassano, la cui sovranità vicentina era stata messa in discussione dagli avversari patavini.
Nello specifico della spedizione verso Longare, che allora non era ancora nato come borgo, ma dai fatti guerreschi trasse notorietà, l'esercito viene definito dal Maccà come "grosso", e, anche se l'enunciazione appare generosa, all'epoca non doveva essere molto numeroso, rinvigorito da qualche cavaliere e da un po' di militi, ma la gente in arme doveva essere poca e limitata nell'azione offensiva ad arnesi in legno come bastoni e forconi con una scarsa presenza di attrezzi metallici. All'epoca le armature erano molto leggere e in maglia di ferro, il cosiddetto usbergo, davano una discreta protezione e consentivano buoni movimenti, per poi diventare sempre più pesanti e più protettive con grande limitazione fisica, togliendo qualsiasi agilità al combattente.
Tuttavia il bellicoso corteo, raggiunta la biforcazione del fiume, non trovò alcun nemico ad attenderlo e non vi fu alcuno scontro. In pratica l'evento si risolse in una ostentazione delle forze su cui il capoluogo poteva contare, e più che alle armi si diede la parola... ai braccianti dando inizio subito alla costruzione di una rosta, uno sbarramento per impedire il flusso verso sud e dirigerlo verso il basso Vicentino, con le note conseguenze per la città di Padova. Si può pensare che, oltre a una presenza di armati, numerosi fossero gli zappatori e gli operatori che manualmente misero in atto il progetto, dando forma a una vera diga in legno con pali e non così "artigianale" e improvvisata come la precedente, di vent'anni prima, ma sempre sistemata lungo il Bacchiglione - Retrone. Nelle vicinanze della nuova rosta venne lasciato un piccolo presidio col compito di sorvegliare la zona, badando di segnalare l'arrivo di nemici, e nel frattempo il grosso delle forze - o meglio il pomposo corteo - senza aver dato mano alle armi venne fatto rientrare al riparo, dietro le mura beriche.

Didascalia:
Il carroccio con le insegne vicentine con la croce bianca su fondo rosso in una ricostruzione del percorso verso Longare a fianco dei colli Berici. Sono interessanti gli stemmi riportati sul lato sinistro: il primo è quello comitale dei Maltraversi, seguito da quello dei Proto, il simbolo di Vicenza, l'arma dei Thiene appena giunti dalla Grecia e l'emblema di Arzignano. Sul lato posteriore compare lo scudo di Bassano, borgo da sempre rivendicato da Padova, e infine il simbolo dei Nievo, altra importante famiglia vicentina. (ELABORAZIONE DI GINO PANIZZONI)